Monday, 30 November 2015
(Istituto fondamentale) Geopolitica delle contraddizioni
E' venuto il tempo di ripensare la geopolitica come "geopolitica delle contraddizioni". I leader globalizzati continuano ad avvitarsi nella loro incapacità di governo dei processi storici, incapacità che si accompagna alla mancata problematizzazione della volontà di dominio. Una "geopolitica delle contraddizioni" guarda nel profondo delle realtà e necessita di un approccio innovativo che re-integri la complessità dell'esperienza umana; per troppo tempo, infatti, ci siamo illusi di poter fare a meno del contributo dell'antropologia e della filosofia e abbiamo costruito una "geopolitica dell'irrealtà".
L'evidenza è quella di un mondo a-polare e "centrato" sui soliti noti; ci vuole un ripensamento complessivo, occorre tornare alla realtà, rimettere al centro le differenze, porre la questione geostrategica di un dialogo possibile per la civiltà.
Sunday, 29 November 2015
Democrazia e verità (J. Nida-Rumelin) - citazioni -
op.cit. (pag. 41): (...) il maggiore pregiudizio alla democrazia deliberativa proviene sicuramente dallo sviluppo dei mass media, che concede sempre meno spazio all'argomentazione politica ponderata e condotta in maniera articolata. L'esito di un tale processo si può osservare paradigmaticamente in Italia. In nessun'altra democrazia europea l'elemento deliberativo è così deteriorato con in questo Paese. La concentrazione di potere economico, potere mediatico e potere politico, associata al perseguimento senza scrupoli dei propri interessi, ne è soltanto una delle cause, un'altra è il vertiginoso appiattimento dei programmi televisivi. Taluni obietteranno che l'accentuazione del carattere deliberativo della democrazia, tanto più se sostenuta da pretese di verità, equivale a mettere in pericolo la pace civile in una moderna società multiculturale e pluralista. Secondo gli esponenti del pensiero postmoderno soltanto il depotenziamento dell'argomentazione è in grado di dispiegare un effetto pacificatore. Nella moderna società di mercato e dei media le persone si definiscono prioritariamente come consumatori e la politica deve giocare questo gioco pena la sua totale marginalizzazione. Sempre nella loro ottica, la mia diagnosi è pertanto doppiamente errata: né la deliberazione è un elemento essenziale della democrazia, né costituisce una perdita la dissoluzione dell'uso pubblico, politico della ragione in un mercato delle offerte e dei messaggi dominato dai media. Anzi, le istituzioni democratiche possono svolgere un ruolo di pacificazione proprio perché l'argomentazione politica non è presa sul serio come tale, ma interpretata unicamente come espressione di interessi e in tal modo depotenziata. (...)
Democrazia e verità (J. Nida-Rumelin) - citazioni -
op. cit. (pagg 37/38): (...) In democrazia la discussione degli argomenti e il ricorso alle buone ragioni svolgono un ruolo maggiore che in ogni altra forma di governo. Vi è uno stretto rapporto tra la sfera politica e quella dei mass media, entrambe sono a loro volta collegate con la prassi dell'intesa reciproca dei cittadini nella Lebenswelt. Ma anche la giustizia e l'istruzione rientrano fra le istituzioni su cui si basa l'uso pubblico della ragione, ciò che John Rawls annovera, in quanto public culture, tra gli elementi essenziali di un ordine politico giusto. Viene così a dispiegarsi un ampio e complesso sistema basato sulle istituzioni, all'interno del quale si giocano quei giochi fondativi interconnessi tra loro che caratterizzano la dimensione politica pubblica. Le opinioni vengono formate, veicolate e nuovamente rigettate, gli atteggiamenti normativi vengono tradotti in concreta prassi politica e in tal modo sottoposti anche a una sorta di verifica, gli argomenti sono discussi, respinti perché poco credibili, talvolta persino sottoposti a una verifica scientifica. Si potrebbe formulare tale fenomeno anche in questi termini: la prassi effettiva di una democrazia è deliberativa. Questo carattere deliberativo può essere oggi meno pronunciato (...) a causa dello sviluppo dei mass media negli ultimi anni, del crescente predominio dell'immagine rispetto alla stampa, in particolare della semplificazione delle prese di posizione politica tipica dei media audiovisivi e infine a causa della spettacolarizzazione della politica. (...)
Democrazia e verità (J. Nida-Rumelin) - citazioni -
op. cit.: (...) una democrazia si distingue da altre forme statuali nel senso che getta un ponte senza il quale una democrazia - a differenza di altre forme di Stato - non può vivere. E' un ponte tra la Lebenswelt e le convinzioni normative e descrittive che vi si sono consolidate da un lato e il sistema politico e la prassi politica dall'altro. In questo modo la democrazia si assoggetta a determinati vincoli che la distinguono da altre forme di governo. (...)
Saturday, 28 November 2015
Democrazia e verità (J. Nida-Rumelin) - citazioni
op. cit.: (...) Sostengo la tesi che la verità, la contesa circa il vero e il giusto in sede empirica e normativa, occupa in democrazia un posto centrale. Questa tesi va difesa nei confronti sia dell'arbitrarietà propugnata dai postmoderni, sia dell'utopia libertaria del mercato universale. Essa deve però anche distanziarsi dalla gran parte dei suoi sostenitori: la verità di cui qui si parla non esige certezze definitive, nemmeno la particolare expertise di iniziati. Non vi è un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false. Non resta che affidarsi alle quotidiane giustificazioni delle nostre convinzioni sia empiriche che normative, le quali nella cultura pubblica democratica sono sì intrise di razionalità scientifica, ma non possono venir rimpiazzate da quest'ultima. (...)
Democrazia e verità (J. Nida-Rumelin) - citazioni
da Julian Nida-Rumelin, Democrazia e Verità (FrancoAngeli): (...) Ci sono soprattutto ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della verità nella democrazia. La democrazia come forma politica e sociale, ma anche come forma di vita, è venuta a trovarsi negli ultimi anni e negli ultimi decenni nella morsa di un economicismo neoliberista, da un lato e di un nuovo fondamentalismo culturale dall'altro. La democrazia come forma di stato e come forma di vita non è solo diventata oggetto di fanatici motivati su base religiosa o che si spacciano per tali, ma anche presunto ostacolo sulla strada di un'economia mondiale dominata dai colossi di internet che rendono tutti produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale. (...)
(Istituto fondamentale) Il consenso forzato. Mediatizzazione, volontà, ragione
Avvolti in una "mediatizzazione dominante", non conosciamo e non comprendiamo la realtà; questo accade quando i media diventano strumenti del pensiero lineare e servono a dargli "dignità strategica". Anche da questo punto di vista, è sempre più necessario ritrovarci in luoghi comunitari di pensiero per l'azione.
Il mio pensiero sui media comprende e valorizza i grandi sconvolgimenti positivi che sono avvenuti negli ultimi decenni e che hanno portato a importanti innovazioni nelle nostre vite; però, mentre da un lato si sono moltiplicati i "canali di accesso" alla realtà, dall'altro lato si sono drasticamente ridotte le possibilità di conoscerla per comprenderla.
La domanda è: l'attuale sistema mediatico aiuta il formarsi e il consolidarsi di un pensiero critico, dunque libero ? Parlo di "mediatizzazione dominante" perché la mia risposta è no. Basta ascoltare le persone, frequentare i luoghi della socialità quotidiana, per capire il livello di superficialità nel quale siamo immersi; l' "alleanza" fra media e pensiero lineare genera la incapacità di "pensare nella vita", privilegiando un "pensare sulla vita". In questo senso utilizzo l'aggettivo "dominante".
Troppo spesso si "raccontano" le sfide della storia solo per alzare il livello della paura o, al contrario, per diffondere una tranquillità "soporifera"; nulla a che vedere, dunque, con una narrazione della complessità della vita. Tale racconto, per me non pertinente, ci invita, sempre di più, o a rafforzare la voglia di scontro permanente o a privilegiare l'irresponsabilità nel nostro rapporto con la realtà.
Si capisce, dunque, come nella "mediatizzazione dominante", laddove non matura un pensiero critico (libero) sulla realtà globalmente intesa, la ragione e la volontà di ciascuno di noi non trovino terreno fertile per aprirsi e per responsabilizzarsi. La ragione resta "chiusa" e la volontà "impotente". Ne consegue che, senza voler generalizzare, la persona umana del terzo millennio è normalmente molto informata e, allo stesso tempo, incapace di conoscere per decidere; la "mediatizzazione dominante" rallenta la nostra "potenzialità di conoscere" (ognuno a suo modo) e ci rende strumenti di narrazioni "altre"; in questa sorta di "consenso forzato" tradiamo la nostra, e profonda, natura di "soggetti storici".
Il mio pensiero sui media comprende e valorizza i grandi sconvolgimenti positivi che sono avvenuti negli ultimi decenni e che hanno portato a importanti innovazioni nelle nostre vite; però, mentre da un lato si sono moltiplicati i "canali di accesso" alla realtà, dall'altro lato si sono drasticamente ridotte le possibilità di conoscerla per comprenderla.
La domanda è: l'attuale sistema mediatico aiuta il formarsi e il consolidarsi di un pensiero critico, dunque libero ? Parlo di "mediatizzazione dominante" perché la mia risposta è no. Basta ascoltare le persone, frequentare i luoghi della socialità quotidiana, per capire il livello di superficialità nel quale siamo immersi; l' "alleanza" fra media e pensiero lineare genera la incapacità di "pensare nella vita", privilegiando un "pensare sulla vita". In questo senso utilizzo l'aggettivo "dominante".
Troppo spesso si "raccontano" le sfide della storia solo per alzare il livello della paura o, al contrario, per diffondere una tranquillità "soporifera"; nulla a che vedere, dunque, con una narrazione della complessità della vita. Tale racconto, per me non pertinente, ci invita, sempre di più, o a rafforzare la voglia di scontro permanente o a privilegiare l'irresponsabilità nel nostro rapporto con la realtà.
Si capisce, dunque, come nella "mediatizzazione dominante", laddove non matura un pensiero critico (libero) sulla realtà globalmente intesa, la ragione e la volontà di ciascuno di noi non trovino terreno fertile per aprirsi e per responsabilizzarsi. La ragione resta "chiusa" e la volontà "impotente". Ne consegue che, senza voler generalizzare, la persona umana del terzo millennio è normalmente molto informata e, allo stesso tempo, incapace di conoscere per decidere; la "mediatizzazione dominante" rallenta la nostra "potenzialità di conoscere" (ognuno a suo modo) e ci rende strumenti di narrazioni "altre"; in questa sorta di "consenso forzato" tradiamo la nostra, e profonda, natura di "soggetti storici".
(Istituto fondamentale) La mentalità progettuale e le decisioni conseguenti
Si ascoltano dibattiti difficili da interpretare sui temi della pace e della guerra. Eppure, a una mente normale, la questione appare piuttosto chiara; colgo l'occasione per sottolineare alcuni passaggi.
Il mondo attuale non può più essere interpretato e governato secondo la logica della sola pace o della sola guerra; il problema sono la mentalità progettuale e le decisioni conseguenti in luogo di decisioni prese seguendo l'onda emozionale e senza riflessione sul contesto, sul complesso e sulle conseguenze.
Pace e guerra sono oggi considerate come "verità rivelate", quasi intoccabili e "assolutizzate".
Si usa la parola "guerra" con una facilità imbarazzante, troppo spesso associandola
all' espressione "di civiltà" e creando un mix esplosivo e difficile da disinnescare; troppo spesso si fanno guerre in nome della democrazia e del mercato, rovesciando dittatori che sapevano tenere "pacificati" i loro Paesi (pur con molte difficoltà) e scatenando, in quei Paesi, lo scoppio di sanguinose rivalità etnico-tribali che sembravano sopite. Invece, di fronte al totalitarismo rappresentato dall'Isis, la "comunità internazionale" balbetta, prigioniera (ancora una volta) dei suoi stessi interessi economici e delle sue compromissioni geopolitiche.
Si usa la parola "pace" o in senso utopistico o in senso limitativo; nel primo caso, "totalizzandola" fino al punto di renderla impossibile (con tutta la retorica conseguente, giocata in termini a-storici e irreali) e, nel secondo caso, pensandola e praticandola come semplice assenza di guerra. La pace, nella mia visione, è un "progetto/processo storico permanente", un lavoro di ricucitura della realtà globale in ogni contesto; non può esistere una pace universale mentre deve esistere una "pace incarnata", compresa e vissuta (dico "digerita") da ogni persona che ne diventa soggetto e testimone.
Pace e guerra vanno "de-dogmatizzate" e ripensate; umanità vorrebbe che tutti privilegiassimo la prima rispetto alla seconda ma realtà vuole che il conflitto non sia eliminabile dal palcoscenico della storia; ciascuno di noi, infatti è portatore di rapporti di forza e di interessi particolari che, molto spesso e naturalmente, entrano in contrasto con quelli di ogni altra persona. Qui dovrebbero rientrare in gioco i grandi assenti nel mondo a-polare di oggi: la politica (ridotta a strumento di poteri non democratici) e la mediazione (ridotta a compromesso).
Il lavoro, come si vede, è lungo ma necessario.
Il mondo attuale non può più essere interpretato e governato secondo la logica della sola pace o della sola guerra; il problema sono la mentalità progettuale e le decisioni conseguenti in luogo di decisioni prese seguendo l'onda emozionale e senza riflessione sul contesto, sul complesso e sulle conseguenze.
Pace e guerra sono oggi considerate come "verità rivelate", quasi intoccabili e "assolutizzate".
Si usa la parola "guerra" con una facilità imbarazzante, troppo spesso associandola
all' espressione "di civiltà" e creando un mix esplosivo e difficile da disinnescare; troppo spesso si fanno guerre in nome della democrazia e del mercato, rovesciando dittatori che sapevano tenere "pacificati" i loro Paesi (pur con molte difficoltà) e scatenando, in quei Paesi, lo scoppio di sanguinose rivalità etnico-tribali che sembravano sopite. Invece, di fronte al totalitarismo rappresentato dall'Isis, la "comunità internazionale" balbetta, prigioniera (ancora una volta) dei suoi stessi interessi economici e delle sue compromissioni geopolitiche.
Si usa la parola "pace" o in senso utopistico o in senso limitativo; nel primo caso, "totalizzandola" fino al punto di renderla impossibile (con tutta la retorica conseguente, giocata in termini a-storici e irreali) e, nel secondo caso, pensandola e praticandola come semplice assenza di guerra. La pace, nella mia visione, è un "progetto/processo storico permanente", un lavoro di ricucitura della realtà globale in ogni contesto; non può esistere una pace universale mentre deve esistere una "pace incarnata", compresa e vissuta (dico "digerita") da ogni persona che ne diventa soggetto e testimone.
Pace e guerra vanno "de-dogmatizzate" e ripensate; umanità vorrebbe che tutti privilegiassimo la prima rispetto alla seconda ma realtà vuole che il conflitto non sia eliminabile dal palcoscenico della storia; ciascuno di noi, infatti è portatore di rapporti di forza e di interessi particolari che, molto spesso e naturalmente, entrano in contrasto con quelli di ogni altra persona. Qui dovrebbero rientrare in gioco i grandi assenti nel mondo a-polare di oggi: la politica (ridotta a strumento di poteri non democratici) e la mediazione (ridotta a compromesso).
Il lavoro, come si vede, è lungo ma necessario.
Friday, 27 November 2015
(Istituto fondamentale) Fermiamoci a riflettere
Fermarci a riflettere è un'arte saggia mentre la stragrande maggioranza di noi corre senza un "fine", solo per competere. Se ci fermassimo a riflettere scopriremmo le informalità della storia e le transizioni nelle quali la vita evolve nella sua complessità; la riflessione come possibilità di scoperta è un "pensiero nella vita", non un "pensiero sulla vita".
L'atto del riflettere è l'atto della ricerca. Anziché continuare a correre verso un ignoto che vestiamo di certezze, è necessario rallentare il ritmo della nostra presunzione per ritrovare la capacità di ricongiungere, anzitutto culturalmente, ciò che è disperso; dobbiamo dedicarci a ricercare, sempre più problematizzando ciò che riteniamo immutabile e accogliendo la naturale incertezza della realtà, a cominciare dalla nostra.
Fermarci a riflettere significa ricongiungerci con l'oltre che già ci percorre e ritrovarci nei "luoghi" della realtà. Globalizzati e competitivi, abbiamo stravolto l'idea del tempo e dello spazio.
Il tempo della competizione è "tempo lineare", sommatoria cronologica senza profondità, senza emozione. Lo scorrere lineare dimentica che l'esperienza umana è un "complesso" che vive nella "tempiternità", nella naturale e profonda integrazione fra ciò che siamo stati e ciò che saremo; il presente come tale non esiste, è la sintesi continua dell' "essere che diviene".
Lo spazio della competizione è un' "arena globalizzata", "non luogo" dell'irrealtà. In tale arena ci limitiamo a esistere, in-differenti; il dato che vediamo nella globalizzazione è che, contemporaneamente, le società si aprono e si svuotano di senso. In tale contesto, perdiamo la certezza dell'identità come appartenenza e non ci ritroviamo in una identità globale di senso ma esistiamo in una sorta di permanente disagio che ci fa smarrire.
L'atto del riflettere è l'atto della ricerca. Anziché continuare a correre verso un ignoto che vestiamo di certezze, è necessario rallentare il ritmo della nostra presunzione per ritrovare la capacità di ricongiungere, anzitutto culturalmente, ciò che è disperso; dobbiamo dedicarci a ricercare, sempre più problematizzando ciò che riteniamo immutabile e accogliendo la naturale incertezza della realtà, a cominciare dalla nostra.
Fermarci a riflettere significa ricongiungerci con l'oltre che già ci percorre e ritrovarci nei "luoghi" della realtà. Globalizzati e competitivi, abbiamo stravolto l'idea del tempo e dello spazio.
Il tempo della competizione è "tempo lineare", sommatoria cronologica senza profondità, senza emozione. Lo scorrere lineare dimentica che l'esperienza umana è un "complesso" che vive nella "tempiternità", nella naturale e profonda integrazione fra ciò che siamo stati e ciò che saremo; il presente come tale non esiste, è la sintesi continua dell' "essere che diviene".
Lo spazio della competizione è un' "arena globalizzata", "non luogo" dell'irrealtà. In tale arena ci limitiamo a esistere, in-differenti; il dato che vediamo nella globalizzazione è che, contemporaneamente, le società si aprono e si svuotano di senso. In tale contesto, perdiamo la certezza dell'identità come appartenenza e non ci ritroviamo in una identità globale di senso ma esistiamo in una sorta di permanente disagio che ci fa smarrire.
(Istituto fondamentale) Massima radicalità, massima essenzialità
Chi ha a cuore la ricerca sa che la verità della realtà non è scritta su alcuna "mappa del tesoro". Rispetto alla realtà, dobbiamo continuare a scavare nel profondo, ricercando sempre di più fino al livello che chiamerei della "massima radicalità" che corrisponde alla "massima essenzialità"; per questa ragione, in precedenti post, ponevo il tema della urgenza di ritornare a porci le domande fondamentali, superando l'ansia da risposte a tutti i costi.
Se torniamo, come dovremmo, alle domande fondamentali, il punto dell'assenza di dubbio (o del dominio della certezza) è fondamentale. Il nostro modo di pensare è, in molti casi, vinto dalle certezze dominanti, da quell'atteggiamento di continuo "riarmo culturale" nei confronti dell'altro vissuto come diverso e non come "differente umano". Insomma, siamo talmente certi di ciò che siamo che possiamo (anzi, non vediamo l'ora) di fare la guerra a chi non la pensa come noi, di considerare "inferiore" il suo universo culturale, di considerarlo "sotto-sviluppato". Questo è il tipico atteggiamento da "ignoranti civilizzati", da "primitivi progrediti".
L'Istituto fondamentale per la Conoscenza e la Convivenza, integrazione di luoghi comunitari di pensiero-azione, è una proposta di lavoro comune che si fonda sulla ricchezza di dubbi e di domande utili a trovare risposte pertinenti. Il mondo a-polare è percorso da sfide che chiedono un approccio innovativo rispetto a quello dell'"azione-reazione"; si tratta, infatti, di accogliere la "sfida della complessità". Ciò, per quanto ovvio, nella considerazione realistica che vi sono situazioni nelle quali bisogna reagire al "dato di fatto" come nel caso dell'Isis come forma di "totalitarismo asimmetrico e globalizzato"; anche in questo caso, però, rimane il problema di conoscere per comprendere e la sfida non potrà dirsi vinta fino a quando non porremo all'evidenza storica e non faremo di tutto per superare (prima di tutto culturalmente e politicamente) i punti di incoerenza che il cosiddetto "occidente" vuole nascondere sotto il tappeto del suo presunto "bene assoluto".
Se torniamo, come dovremmo, alle domande fondamentali, il punto dell'assenza di dubbio (o del dominio della certezza) è fondamentale. Il nostro modo di pensare è, in molti casi, vinto dalle certezze dominanti, da quell'atteggiamento di continuo "riarmo culturale" nei confronti dell'altro vissuto come diverso e non come "differente umano". Insomma, siamo talmente certi di ciò che siamo che possiamo (anzi, non vediamo l'ora) di fare la guerra a chi non la pensa come noi, di considerare "inferiore" il suo universo culturale, di considerarlo "sotto-sviluppato". Questo è il tipico atteggiamento da "ignoranti civilizzati", da "primitivi progrediti".
L'Istituto fondamentale per la Conoscenza e la Convivenza, integrazione di luoghi comunitari di pensiero-azione, è una proposta di lavoro comune che si fonda sulla ricchezza di dubbi e di domande utili a trovare risposte pertinenti. Il mondo a-polare è percorso da sfide che chiedono un approccio innovativo rispetto a quello dell'"azione-reazione"; si tratta, infatti, di accogliere la "sfida della complessità". Ciò, per quanto ovvio, nella considerazione realistica che vi sono situazioni nelle quali bisogna reagire al "dato di fatto" come nel caso dell'Isis come forma di "totalitarismo asimmetrico e globalizzato"; anche in questo caso, però, rimane il problema di conoscere per comprendere e la sfida non potrà dirsi vinta fino a quando non porremo all'evidenza storica e non faremo di tutto per superare (prima di tutto culturalmente e politicamente) i punti di incoerenza che il cosiddetto "occidente" vuole nascondere sotto il tappeto del suo presunto "bene assoluto".
Thursday, 26 November 2015
(Istituto fondamentale) Sconfiggiamo le "certezze globalizzate"
Chi continua a riempire il mondo di "certezze globalizzate", che si rivelano sempre di più sciocchezze all'ennesima potenza, contribuisce alla progressiva degenerazione della convivenza umana.
Senza visioni storiche, comunque la si pensi, non si può che arretrare. Il mondo a-polare è percorso da un enorme problema; l'intreccio, apparentemente inestricabile, fra ragioni geopolitiche e interessi economici. In tutto questo, la politica sembra avere smarrito la sua natura profonda di governo dei processi storici ed essersi rassegnata a essere stampella di poteri non democratici.
Siamo fra coloro che pensano che un cambio di passo sia possibile, e molto urgente; ce lo chiede l'umanità, sempre più immersa nella "terza guerra mondiale a capitoli".
Senza visioni storiche, comunque la si pensi, non si può che arretrare. Il mondo a-polare è percorso da un enorme problema; l'intreccio, apparentemente inestricabile, fra ragioni geopolitiche e interessi economici. In tutto questo, la politica sembra avere smarrito la sua natura profonda di governo dei processi storici ed essersi rassegnata a essere stampella di poteri non democratici.
Siamo fra coloro che pensano che un cambio di passo sia possibile, e molto urgente; ce lo chiede l'umanità, sempre più immersa nella "terza guerra mondiale a capitoli".
(Istituto fondamentale) La responsabilità strategica
Sembra quasi che i politici e gli intellettuali aspettino un evento sempre peggiore del precedente per prendere atto dei limiti delle proprie certezze consolidate. E' difficile, lo sappiamo, mettere in discussione ciò che siamo ed è urgente domandarci ciò che siamo diventati; ci troviamo nella condizione di dover prendere atto della nostra progressiva degenerazione, di doverci fermare un attimo per guardare con realismo al valore di ciò che abbiamo costruito e al prezzo pagato da parte dei più.
Forse questo discorso non piacerà ai "sacerdoti" della competizione, ai portatori sani (?) di "dogma", ai consiglieri del principe; non piacerà a chi pensa che avere dubbi sia un segno di debolezza; non piacerà a chi ha paura del "pensiero critico", pensiero che noi auspichiamo come la possibilità per ciascuno di conoscere per comprendere.
La maggioranza dei politici e degli intellettuali, carente di visione storica, si colloca sulla superficie dei problemi e delle sfide, evitando quel "passaggio in profondità" che è necessario per ricongiungersi con la realtà. Al di là delle contraddizioni e delle ambiguità che appartengono a chi oggi è convinto di governare il mondo, c'è il problema di ridare contenuto progettuale al nostro orizzonte, recuperando un senso della storia che sembriamo avere smarrito.
La sfida non è più solo quella di fare analisi ma è quella di maturare visioni; ci vogliono comunità di pensiero-azione, capacità di integrare discipline differenti, voglia di ritrovare la complessità dell'esperienza umana, onestà di considerarci inter-in-dipendenti e dunque, al contempo, fondamentali in quanto "unicità" ma inesistenti senza ogni altro DI noi.
Nessun esperto può ergersi a esperto della storia; ci vuole una rinnovata responsabilità intellettuale che, nel lavoro visionario per l'organizzazione della convivenza umana secondo giustizia e libertà, diventa strategica.
Forse questo discorso non piacerà ai "sacerdoti" della competizione, ai portatori sani (?) di "dogma", ai consiglieri del principe; non piacerà a chi pensa che avere dubbi sia un segno di debolezza; non piacerà a chi ha paura del "pensiero critico", pensiero che noi auspichiamo come la possibilità per ciascuno di conoscere per comprendere.
La maggioranza dei politici e degli intellettuali, carente di visione storica, si colloca sulla superficie dei problemi e delle sfide, evitando quel "passaggio in profondità" che è necessario per ricongiungersi con la realtà. Al di là delle contraddizioni e delle ambiguità che appartengono a chi oggi è convinto di governare il mondo, c'è il problema di ridare contenuto progettuale al nostro orizzonte, recuperando un senso della storia che sembriamo avere smarrito.
La sfida non è più solo quella di fare analisi ma è quella di maturare visioni; ci vogliono comunità di pensiero-azione, capacità di integrare discipline differenti, voglia di ritrovare la complessità dell'esperienza umana, onestà di considerarci inter-in-dipendenti e dunque, al contempo, fondamentali in quanto "unicità" ma inesistenti senza ogni altro DI noi.
Nessun esperto può ergersi a esperto della storia; ci vuole una rinnovata responsabilità intellettuale che, nel lavoro visionario per l'organizzazione della convivenza umana secondo giustizia e libertà, diventa strategica.
Wednesday, 25 November 2015
(Istituto fondamentale) Il dubbio è positivo
Il dubbio dovrebbe farsi cultura. Segno positivo, il dubbio è utile per "disarmare" progressivamente il bagaglio di certezze che ci portiamo dietro e che ci ha condotti alla degenerazione che vediamo oggi, rendendoci ostaggi di una irrealtà che è frutto della nostra "ragione cieca". Il mondo a-polare nel quale siamo immersi e le minacce asimmetriche che lo percorrono ci chiamano a una rinnovata consapevolezza strategica.
I grandi "summit", sempre meno luoghi di decisione e sempre più "giustificazione" delle mancanze dei leader del mondo, sono sostanzialmente inutili e non si pongono il problema di un urgente quanto necessario ritorno alla realtà. Il mondo è chiuso nello scontro fra "verità dogmatiche", quella di un "Occidente" che ha tradito il proprio pensiero e che balbetta (anche perché molto compromesso) nell'affrontare il totalitarismo dell'Isis e quella di chi vorrebbe imporre l'ennesimo "paradiso in terra", riportando indietro l'orologio della storia. Le "verità dogmatiche" derivano anche dalla presunta "immutabilità" delle nostre identità, in realtà già superate dal "meticciato" che è il tratto tipico dell'umanità in cammino e in ricerca.
Orfani di una politica degna di questo nome e di classi dirigenti in grado di governare i fenomeni storici, siamo vittime inconsapevoli delle nostre certezze consolidate che, a ben guardare, dovrebbero farci molta paura.
I grandi "summit", sempre meno luoghi di decisione e sempre più "giustificazione" delle mancanze dei leader del mondo, sono sostanzialmente inutili e non si pongono il problema di un urgente quanto necessario ritorno alla realtà. Il mondo è chiuso nello scontro fra "verità dogmatiche", quella di un "Occidente" che ha tradito il proprio pensiero e che balbetta (anche perché molto compromesso) nell'affrontare il totalitarismo dell'Isis e quella di chi vorrebbe imporre l'ennesimo "paradiso in terra", riportando indietro l'orologio della storia. Le "verità dogmatiche" derivano anche dalla presunta "immutabilità" delle nostre identità, in realtà già superate dal "meticciato" che è il tratto tipico dell'umanità in cammino e in ricerca.
Orfani di una politica degna di questo nome e di classi dirigenti in grado di governare i fenomeni storici, siamo vittime inconsapevoli delle nostre certezze consolidate che, a ben guardare, dovrebbero farci molta paura.
(Istituto fondamentale) Scontro fra civiltà
Usare il metodo dello "scontro fra civiltà" come narrazione del mondo significa essere ostaggi del pensiero lineare, quello che non considera le informalità e le sfumature della realtà ma che esclude per dominare e che non considera le dimensioni del "contesto" e del "complesso".
Lo "scontro fra civiltà":
- è la negazione dell' umanità come "mosaico complesso", come integrazione fra "persone - soggetti storici";
- è la negazione del valore strategico delle differenze e della possibilità storica del dialogo fra differenze integrabili;
- è la legittimazione dell'umanità come sommatoria fra individui non dialoganti;
- è la legittimazione dell'altro come diverso e non come "differente umano";
- è la legittimazione della guerra come unica possibilità di governo dei processi storici;
- riduce la mediazione a compromesso e non vuole trovare punti di sintesi per valorizzare e liberare le differenze insite nella progettualità umana;
- guarda ai processi storici solo in termini di prevedibilità e di misurazione quantitativa
Lo "scontro fra civiltà":
- è la negazione dell' umanità come "mosaico complesso", come integrazione fra "persone - soggetti storici";
- è la negazione del valore strategico delle differenze e della possibilità storica del dialogo fra differenze integrabili;
- è la legittimazione dell'umanità come sommatoria fra individui non dialoganti;
- è la legittimazione dell'altro come diverso e non come "differente umano";
- è la legittimazione della guerra come unica possibilità di governo dei processi storici;
- riduce la mediazione a compromesso e non vuole trovare punti di sintesi per valorizzare e liberare le differenze insite nella progettualità umana;
- guarda ai processi storici solo in termini di prevedibilità e di misurazione quantitativa
(Istituto fondamentale) La fragilità della democrazia
Se avessimo l'onestà intellettuale di rileggere le parole della Arendt in "Le origini del totalitarismo" capiremmo molte cose sulla fragilità della democrazia, oggi considerata un dogma e un "fine".
Il problema è che, dimenticata la politica come arte della mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e come scienza della liberazione della progettualità umana, ci è rimasta la "democrazia impositiva" come modello da esportare. Ciò di cui pensiamo di poter fare a meno è l'incarnazione della democrazia nei processi storici presenti in ogni contesto; altresì, la "democrazia impositiva", strumento che si fa fine, non guarda al valore della libertà come liberazione.
Hanno scritto Edgar Morin e Mauro Ceruti (Una democrazia cognitiva, per una democrazia planetaria - ricerca - marzo/aprile 2013): Dobbiamo comprendere che il rifiuto di affrontare l’orizzonte di un governo e di una democrazia planetaria retroagisce negativamente sulla stessa coesione delle nostre società. Dobbiamo comprendere, nel contempo, che la stessa difficoltà che impedisce la nascita di un’umanità e di una società planetarie trova le sue radici in una drammatica crisi cognitiva.L’ostacolo alla comprensione delle crisi planetarie non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza.
La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze. Ma queste conoscenze sono incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali, globali. L’università e la scuola ci insegnano a separare, non a collegare. Continuano a disgiungere conoscenze che dovrebbero essere interconnesse. La separazione delle discipline ci rende incapaci di cogliere “ciò che è tessuto insieme”: il complesso.
I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni ai problemi più gravi della nostra era planetaria costituiscono essi stessi uno dei problemi più gravi.
Più i problemi diventano multidimensionali, maggiore è l’incapacità di affrontarli; più le crisi avanzano, più aumenta l’incapacità di pensarle; più le questioni diventano globali, maggiore è l’incapacità di raffigurarle.
Il pensiero che divide e isola consente agli esperti di fornire prestazioni di alto livello nei loro compartimenti. Ma questi stessi esperti estendono anche alle relazioni umane i meccanismi inumani della macchina artificiale. La loro visione ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero, creativo.
Un pensiero capace solo di separare frammenta la complessità del mondo in singoli elementi disgiunti. Distrugge ogni possibilità di comprensione e di riflessione, elimina le possibilità di un giudizio correttivo o di una veduta a lungo termine. E’ un pensiero che rende ciechi e irresponsabili.
Il pensiero che collega deve prendere il posto del pensiero che separa.
Per pensare i problemi planetari, dobbiamo generare un pensiero del contesto e un pensiero del complesso. Dobbiamo pensare in termini planetari la politica, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia delle risorse biologiche, ecologiche, culturali.
Vi è la necessità di un pensiero che colga i legami, le interazioni, le implicazioni reciproche, che colleghi quel che è diviso, che rispetti ciò che è diverso riconoscendo al tempo stesso l’uno. E questo significa: un pensiero multidimensionale; un pensiero organizzatore capace di concepire la relazione reciproca fra il tutto e le parti; un pensiero ecologico che situi l’oggetto studiato nelle sue molteplici relazioni con i suoi ambienti; un pensiero che sappia negoziare con l’incertezza.
La complessità dei problemi di questo mondo ci disarma, ma proprio per questo dobbiamo riarmarci intellettualmente imparando a pensare la complessità.
Oggi che due nessi inscindibili, quello fra locale e globale e quello fra politica e tecnologia, pervadono tutte le dimensioni della vita quotidiana, il cittadino si sente espropriato del diritto di decidere la propria collocazione nel mondo. Vi è un divario fra democrazia politica, che almeno apparentemente continua a essere praticata, e democrazia cognitiva, che rischia di non essere praticata da nessuno, perché nemmeno gli esperti riescono a pensare l’intreccio dei problemi ai quali dovrebbero essere chiamati a rispondere.
Dobbiamo invertire il circolo, renderlo da vizioso virtuoso. Solo un’inedita democrazia cognitiva, che promuova lo sviluppo personale dei cittadini nella loro capacità di acquisire, di connettere, di interpretare informazioni e conoscenze, potrà consentire di rigenerare la democrazia politica.
Il problema è che, dimenticata la politica come arte della mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e come scienza della liberazione della progettualità umana, ci è rimasta la "democrazia impositiva" come modello da esportare. Ciò di cui pensiamo di poter fare a meno è l'incarnazione della democrazia nei processi storici presenti in ogni contesto; altresì, la "democrazia impositiva", strumento che si fa fine, non guarda al valore della libertà come liberazione.
Hanno scritto Edgar Morin e Mauro Ceruti (Una democrazia cognitiva, per una democrazia planetaria - ricerca - marzo/aprile 2013): Dobbiamo comprendere che il rifiuto di affrontare l’orizzonte di un governo e di una democrazia planetaria retroagisce negativamente sulla stessa coesione delle nostre società. Dobbiamo comprendere, nel contempo, che la stessa difficoltà che impedisce la nascita di un’umanità e di una società planetarie trova le sue radici in una drammatica crisi cognitiva.L’ostacolo alla comprensione delle crisi planetarie non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza.
La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze. Ma queste conoscenze sono incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali, globali. L’università e la scuola ci insegnano a separare, non a collegare. Continuano a disgiungere conoscenze che dovrebbero essere interconnesse. La separazione delle discipline ci rende incapaci di cogliere “ciò che è tessuto insieme”: il complesso.
I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni ai problemi più gravi della nostra era planetaria costituiscono essi stessi uno dei problemi più gravi.
Più i problemi diventano multidimensionali, maggiore è l’incapacità di affrontarli; più le crisi avanzano, più aumenta l’incapacità di pensarle; più le questioni diventano globali, maggiore è l’incapacità di raffigurarle.
Il pensiero che divide e isola consente agli esperti di fornire prestazioni di alto livello nei loro compartimenti. Ma questi stessi esperti estendono anche alle relazioni umane i meccanismi inumani della macchina artificiale. La loro visione ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero, creativo.
Un pensiero capace solo di separare frammenta la complessità del mondo in singoli elementi disgiunti. Distrugge ogni possibilità di comprensione e di riflessione, elimina le possibilità di un giudizio correttivo o di una veduta a lungo termine. E’ un pensiero che rende ciechi e irresponsabili.
Il pensiero che collega deve prendere il posto del pensiero che separa.
Per pensare i problemi planetari, dobbiamo generare un pensiero del contesto e un pensiero del complesso. Dobbiamo pensare in termini planetari la politica, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia delle risorse biologiche, ecologiche, culturali.
Vi è la necessità di un pensiero che colga i legami, le interazioni, le implicazioni reciproche, che colleghi quel che è diviso, che rispetti ciò che è diverso riconoscendo al tempo stesso l’uno. E questo significa: un pensiero multidimensionale; un pensiero organizzatore capace di concepire la relazione reciproca fra il tutto e le parti; un pensiero ecologico che situi l’oggetto studiato nelle sue molteplici relazioni con i suoi ambienti; un pensiero che sappia negoziare con l’incertezza.
La complessità dei problemi di questo mondo ci disarma, ma proprio per questo dobbiamo riarmarci intellettualmente imparando a pensare la complessità.
Oggi che due nessi inscindibili, quello fra locale e globale e quello fra politica e tecnologia, pervadono tutte le dimensioni della vita quotidiana, il cittadino si sente espropriato del diritto di decidere la propria collocazione nel mondo. Vi è un divario fra democrazia politica, che almeno apparentemente continua a essere praticata, e democrazia cognitiva, che rischia di non essere praticata da nessuno, perché nemmeno gli esperti riescono a pensare l’intreccio dei problemi ai quali dovrebbero essere chiamati a rispondere.
Dobbiamo invertire il circolo, renderlo da vizioso virtuoso. Solo un’inedita democrazia cognitiva, che promuova lo sviluppo personale dei cittadini nella loro capacità di acquisire, di connettere, di interpretare informazioni e conoscenze, potrà consentire di rigenerare la democrazia politica.
(Istituto fondamentale) L'idea totalitaria vive nella "certezza dell'onnipotenza"
L'idea totalitaria vive nella "certezza dell' onnipotenza"; quando rendiamo "totale", "assoluto" un qualcosa che fa parte del sistema complesso della convivenza, ci comportiamo da "perfetti totalitari". E questo accade spesso, a ben guardare; capita nella crudeltà rappresentata dall'Isis, capita nella imposizione della democrazia come "fine" (il che, molto spesso, sacrifica la libertà e la giustizia), capita nella dogmatizzazione del mercato. L'idea totalitaria vive nella esasperazione della competizione che è l'espressione globalizzata della nostra certezza di dover essere meccanismi perfetti e vincenti. Per tutte queste ragioni, nessuno (a cominciare da chi scrive) può chiamarsi fuori dalla responsabilità storica per ciò che accade in giro per il mondo.
C'è un antidoto contro l'idea totalitaria ? Penso che la storia ci dimostri che l'idea totalitaria vive costantemente in noi come tentazione del disumano che vuole vincere; ebbene, non potendo eliminare il male che appartiene alla nostra natura, abbiamo la responsabilità di "relativizzarci", di problematizzare il nostro pensiero, di maturare dubbi, di "disarmarci" anzitutto culturalmente.
E' troppo facile, guardando all'oggi, invocare lo scontro fra civiltà sentendosi portatori del bene assoluto; siamo troppo compromessi, noi cosiddetti "occidentali", per poter giudicare altre civiltà. E' venuto il tempo, invece, di ritrovarci in "Stati generali dell'umanità", luoghi della vita nei quali ricominciare a pensare a cosa siamo diventati e a come possiamo ritornare a vivere in termini davvero globali e non solo globalizzati.
C'è un antidoto contro l'idea totalitaria ? Penso che la storia ci dimostri che l'idea totalitaria vive costantemente in noi come tentazione del disumano che vuole vincere; ebbene, non potendo eliminare il male che appartiene alla nostra natura, abbiamo la responsabilità di "relativizzarci", di problematizzare il nostro pensiero, di maturare dubbi, di "disarmarci" anzitutto culturalmente.
E' troppo facile, guardando all'oggi, invocare lo scontro fra civiltà sentendosi portatori del bene assoluto; siamo troppo compromessi, noi cosiddetti "occidentali", per poter giudicare altre civiltà. E' venuto il tempo, invece, di ritrovarci in "Stati generali dell'umanità", luoghi della vita nei quali ricominciare a pensare a cosa siamo diventati e a come possiamo ritornare a vivere in termini davvero globali e non solo globalizzati.
(Istituto fondamentale) Abbiamo bisogno di ritrovare i "luoghi della vita"
Abbiamo bisogno di ritrovare i "luoghi della vita" e di riappropriarcene. La "cultura del coinvolgimento" deve diventare "strategia della riappropriazione" in noi della realtà e della storia.
Cosa siamo diventati ? Avvolti nella mentalità tecnocratica, ci comportiamo come "perfetti meccanismi da competizione" e questo ci fa dimenticare ciò che siamo davvero, soggetti storici in ricerca di senso; siamo imperfetti e incerti ma neghiamo di esserlo attraverso la nostra "ragione cieca".
Ritrovare i "luoghi della vita" significa ritrovare il gusto, la passione, la difficoltà della cooperazione, dell'incontro, del confronto, del dialogo; significa lavorare a ricostruire le relazioni, adottando uno sguardo differente sia nelle nostre occasioni di vita quotidiana che a livello di visione del mondo.
Nei "luoghi della vita" c'è la meraviglia del mistero di ciò che siamo e che abbiamo la responsabilità di vivere; oggi, infatti, siamo portati ad accantonare tutte quelle dimensioni che non appartengono alla categoria del "vincente" e a considerarle pressoché irrilevanti, romantiche e non utili alla competizione. Nei "luoghi della vita", invece, si presta attenzione a re-integrare ciò che è disperso, a calarsi nelle complessità dell'esperienza umana, a ri-ascoltarsi fra generazioni, a cooperare.
La più grande sfida del tempo presente è quella di ricominciare a vivere, ripensando complessivamente l'impianto della convivenza umana; i "luoghi della vita" sono i luoghi della nostra naturale complessità.
Cosa siamo diventati ? Avvolti nella mentalità tecnocratica, ci comportiamo come "perfetti meccanismi da competizione" e questo ci fa dimenticare ciò che siamo davvero, soggetti storici in ricerca di senso; siamo imperfetti e incerti ma neghiamo di esserlo attraverso la nostra "ragione cieca".
Ritrovare i "luoghi della vita" significa ritrovare il gusto, la passione, la difficoltà della cooperazione, dell'incontro, del confronto, del dialogo; significa lavorare a ricostruire le relazioni, adottando uno sguardo differente sia nelle nostre occasioni di vita quotidiana che a livello di visione del mondo.
Nei "luoghi della vita" c'è la meraviglia del mistero di ciò che siamo e che abbiamo la responsabilità di vivere; oggi, infatti, siamo portati ad accantonare tutte quelle dimensioni che non appartengono alla categoria del "vincente" e a considerarle pressoché irrilevanti, romantiche e non utili alla competizione. Nei "luoghi della vita", invece, si presta attenzione a re-integrare ciò che è disperso, a calarsi nelle complessità dell'esperienza umana, a ri-ascoltarsi fra generazioni, a cooperare.
La più grande sfida del tempo presente è quella di ricominciare a vivere, ripensando complessivamente l'impianto della convivenza umana; i "luoghi della vita" sono i luoghi della nostra naturale complessità.
Tuesday, 24 November 2015
(Istituto fondamentale) Democrazia e mercato
A forza di voler imporre le nostre convinzioni sul mondo, abbiamo "dogmatizzato" democrazia e mercato; tutt'altro che dogmi, democrazia e mercato sono strumenti (certamente fondamentali). Il nostro compito storico di persone umane è quello di ricondurre tali strumenti a incarnarsi nei processi vitali al fine di far generare altri processi vitali. Nel mondo di oggi, a ben guardare, troppo spesso accade il contrario; ciò che è strumento viene considerato "fine" e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Nel dogmatizzare democrazia e mercato facciamo degenerare ciò che essi dovrebbero valorizzare e consolidare: la libertà intesa come liberazione e lo sviluppo inteso come l'evoluzione integrale di ogni persona umana e di ogni comunità secondo "giustizia", cioé secondo il "fine" che è proprio di ciascuna di esse.
Abbiamo reso la democrazia e il mercato degli "universali culturali". Abbiamo pensato che tali strumenti potessero funzionare per tutti e in ogni contesto, dimenticando i processi storici sottostanti. Abbiamo "esportato" la democrazia e il mercato in nome di una competizione che si è fatta dominante e che ha "invaso" tutti gli ambiti della nostra vita, accompagnandosi a un pensiero lineare e alla sua principale applicazione storica, la guerra. Abbiamo creato un mondo di certezze che, progressivamente, si stanno sciogliendo come neve al sole e che ci ritornano addosso come impossibilità di governare un mondo fattosi "a-polare".
Abbiamo fatto finta che l'incertezza e l'imperfezione non appartenessero alla condizione umana e questo ci ha portati a far vincere l'irrealtà e la crudeltà nella storia; siamo "primitivi progrediti" e, senza aspettare oltre, dobbiamo cambiare rotta.
Nel dogmatizzare democrazia e mercato facciamo degenerare ciò che essi dovrebbero valorizzare e consolidare: la libertà intesa come liberazione e lo sviluppo inteso come l'evoluzione integrale di ogni persona umana e di ogni comunità secondo "giustizia", cioé secondo il "fine" che è proprio di ciascuna di esse.
Abbiamo reso la democrazia e il mercato degli "universali culturali". Abbiamo pensato che tali strumenti potessero funzionare per tutti e in ogni contesto, dimenticando i processi storici sottostanti. Abbiamo "esportato" la democrazia e il mercato in nome di una competizione che si è fatta dominante e che ha "invaso" tutti gli ambiti della nostra vita, accompagnandosi a un pensiero lineare e alla sua principale applicazione storica, la guerra. Abbiamo creato un mondo di certezze che, progressivamente, si stanno sciogliendo come neve al sole e che ci ritornano addosso come impossibilità di governare un mondo fattosi "a-polare".
Abbiamo fatto finta che l'incertezza e l'imperfezione non appartenessero alla condizione umana e questo ci ha portati a far vincere l'irrealtà e la crudeltà nella storia; siamo "primitivi progrediti" e, senza aspettare oltre, dobbiamo cambiare rotta.
(Istituto fondamentale) Per una "cultura del coinvolgimento"
Una delle evidenze storiche del tempo che stiamo vivendo è la confusione tra gli strumenti e i fini. Si richiamava, nel post precedente, il tema della "esportazione della democrazia"; potremmo anche dire dell'applicazione di "modelli di mercato" come presunte ricette risolutive per le sorti del benessere d'interi popoli; la realtà, a ben guardare, ci dice altre cose. La realtà ci ricorda che il principio di umanità può rinascere soltanto attraverso il coinvolgimento profondo, in ogni scelta, di ogni persona umana e di ogni comunità; c'è bisogno che si formi una "cultura del coinvolgimento" e che si ritorni ad "abbracciare" la complessità della realtà per quella che è. E' tempo che gli strumenti ritornino a essere tali, servizio alla maturazione e al progressivo radicamento di una "cultura del coinvolgimento".
La "cultura del coinvolgimento" è inclusiva sia all'interno delle singole realtà (integrare le dinamiche per conoscere e comprendere i contesti) sia tra realtà differenti (ripensare il globale come integrazione fra contesti e non come sommatoria degli stessi).
Abbiamo bisogno di una rinnovata consapevolezza; per costruire comunità, infatti, occorre una mentalità antropologica e filosofica, è importante "guardare dentro per guardare oltre". Chi pensa di risolvere i problemi della storia continuando a "imporre" modelli dall'alto è fuori strada; oggi si tratta di fermarci a riflettere e di considerare quanta umanità abbiamo sacrificato sull'altare della nostra "adorata" competizione.
La "cultura del coinvolgimento" è inclusiva sia all'interno delle singole realtà (integrare le dinamiche per conoscere e comprendere i contesti) sia tra realtà differenti (ripensare il globale come integrazione fra contesti e non come sommatoria degli stessi).
Abbiamo bisogno di una rinnovata consapevolezza; per costruire comunità, infatti, occorre una mentalità antropologica e filosofica, è importante "guardare dentro per guardare oltre". Chi pensa di risolvere i problemi della storia continuando a "imporre" modelli dall'alto è fuori strada; oggi si tratta di fermarci a riflettere e di considerare quanta umanità abbiamo sacrificato sull'altare della nostra "adorata" competizione.
Monday, 23 November 2015
(Istituto fondamentale) Ritornare all'umanità
Dobbiamo ripartire dalle domande fondamentali e chiederci che cosa siamo diventati. Noi "occidentali" ci riteniamo sviluppati e di questo ci facciamo un vanto, raramente fermandoci a riflettere su quanto stiamo facendo in giro per il mondo e sulle conseguenze che questo comporta (il prezzo che gli altri pagano per il nostro presunto sviluppo).
Voglio sottolineare, ancora una volta, che nulla può giustificare la crudeltà disumana di atti che, come a Parigi, uccidono persone inermi; la tesi secondo la quale l'Isis vendica gli errori dell'Occidente è da respingere al mittente; l'Isis, infatti, è una evidente riproposizione storica dell'esperienza totalitaria.
Detto questo, però, diciamo con chiarezza e con onestà intellettuale che non possiamo pensare che i nostri comportamenti siano sempre in linea con il principio di umanità. Se quella che chiamiamo globalizzazione ha permesso a milioni di persone di guadagnare una dignità di vita, è altrettanto vero che, troppo spesso e colpevolmente, il "modello globalizzato" impone "ricette omologanti" senza guardare alla complessità dei processi storici; abbiamo distrutto comunità, mondi vitali, universi relazionali solo per voler imporre un innaturale "universale culturale". E questo è successo in vari ambiti; si pensi, solo per fare un esempio, al grande inganno rappresentato dalla "esportazione della democrazia" e dai gravi danni che questa pratica ha generato.
Ritornare all'umanità non può essere soltanto una retorica enunciazione di principio; si tratta di un lavoro lungo, paziente, complesso; si tratta di rimettere al centro del nostro pensare-agire la persona umana (ogni persona umana) e la comunità (ogni comunità) e di ricostruire il rapporto sinergico e strategico fra persona umana e comunità.
Voglio sottolineare, ancora una volta, che nulla può giustificare la crudeltà disumana di atti che, come a Parigi, uccidono persone inermi; la tesi secondo la quale l'Isis vendica gli errori dell'Occidente è da respingere al mittente; l'Isis, infatti, è una evidente riproposizione storica dell'esperienza totalitaria.
Detto questo, però, diciamo con chiarezza e con onestà intellettuale che non possiamo pensare che i nostri comportamenti siano sempre in linea con il principio di umanità. Se quella che chiamiamo globalizzazione ha permesso a milioni di persone di guadagnare una dignità di vita, è altrettanto vero che, troppo spesso e colpevolmente, il "modello globalizzato" impone "ricette omologanti" senza guardare alla complessità dei processi storici; abbiamo distrutto comunità, mondi vitali, universi relazionali solo per voler imporre un innaturale "universale culturale". E questo è successo in vari ambiti; si pensi, solo per fare un esempio, al grande inganno rappresentato dalla "esportazione della democrazia" e dai gravi danni che questa pratica ha generato.
Ritornare all'umanità non può essere soltanto una retorica enunciazione di principio; si tratta di un lavoro lungo, paziente, complesso; si tratta di rimettere al centro del nostro pensare-agire la persona umana (ogni persona umana) e la comunità (ogni comunità) e di ricostruire il rapporto sinergico e strategico fra persona umana e comunità.
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