Se avessimo l'onestà intellettuale di rileggere le parole della Arendt in "Le origini del totalitarismo" capiremmo molte cose sulla fragilità della democrazia, oggi considerata un dogma e un "fine".
Il problema è che, dimenticata la politica come arte della mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e come scienza della liberazione della progettualità umana, ci è rimasta la "democrazia impositiva" come modello da esportare. Ciò di cui pensiamo di poter fare a meno è l'incarnazione della democrazia nei processi storici presenti in ogni contesto; altresì, la "democrazia impositiva", strumento che si fa fine, non guarda al valore della libertà come liberazione.
Hanno scritto Edgar Morin e Mauro Ceruti (Una democrazia cognitiva, per una democrazia planetaria - ricerca - marzo/aprile 2013): Dobbiamo comprendere che il rifiuto di affrontare l’orizzonte di un governo e di una democrazia planetaria retroagisce negativamente sulla stessa coesione delle nostre società. Dobbiamo comprendere, nel contempo, che la stessa difficoltà che impedisce la nascita di un’umanità e di una società planetarie trova le sue radici in una drammatica crisi cognitiva.L’ostacolo alla comprensione delle crisi planetarie non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza.
La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze. Ma queste conoscenze sono incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali, globali. L’università e la scuola ci insegnano a separare, non a collegare. Continuano a disgiungere conoscenze che dovrebbero essere interconnesse. La separazione delle discipline ci rende incapaci di cogliere “ciò che è tessuto insieme”: il complesso.
I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni ai problemi più gravi della nostra era planetaria costituiscono essi stessi uno dei problemi più gravi.
Più i problemi diventano multidimensionali, maggiore è l’incapacità di affrontarli; più le crisi avanzano, più aumenta l’incapacità di pensarle; più le questioni diventano globali, maggiore è l’incapacità di raffigurarle.
Il pensiero che divide e isola consente agli esperti di fornire prestazioni di alto livello nei loro compartimenti. Ma questi stessi esperti estendono anche alle relazioni umane i meccanismi inumani della macchina artificiale. La loro visione ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero, creativo.
Un pensiero capace solo di separare frammenta la complessità del mondo in singoli elementi disgiunti. Distrugge ogni possibilità di comprensione e di riflessione, elimina le possibilità di un giudizio correttivo o di una veduta a lungo termine. E’ un pensiero che rende ciechi e irresponsabili.
Il pensiero che collega deve prendere il posto del pensiero che separa.
Per pensare i problemi planetari, dobbiamo generare un pensiero del contesto e un pensiero del complesso. Dobbiamo pensare in termini planetari la politica, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia delle risorse biologiche, ecologiche, culturali.
Vi è la necessità di un pensiero che colga i legami, le interazioni, le implicazioni reciproche, che colleghi quel che è diviso, che rispetti ciò che è diverso riconoscendo al tempo stesso l’uno. E questo significa: un pensiero multidimensionale; un pensiero organizzatore capace di concepire la relazione reciproca fra il tutto e le parti; un pensiero ecologico che situi l’oggetto studiato nelle sue molteplici relazioni con i suoi ambienti; un pensiero che sappia negoziare con l’incertezza.
La complessità dei problemi di questo mondo ci disarma, ma proprio per questo dobbiamo riarmarci intellettualmente imparando a pensare la complessità.
Oggi che due nessi inscindibili, quello fra locale e globale e quello fra politica e tecnologia, pervadono tutte le dimensioni della vita quotidiana, il cittadino si sente espropriato del diritto di decidere la propria collocazione nel mondo. Vi è un divario fra democrazia politica, che almeno apparentemente continua a essere praticata, e democrazia cognitiva, che rischia di non essere praticata da nessuno, perché nemmeno gli esperti riescono a pensare l’intreccio dei problemi ai quali dovrebbero essere chiamati a rispondere.
Dobbiamo invertire il circolo, renderlo da vizioso virtuoso. Solo un’inedita democrazia cognitiva, che promuova lo sviluppo personale dei cittadini nella loro capacità di acquisire, di connettere, di interpretare informazioni e conoscenze, potrà consentire di rigenerare la democrazia politica.
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