Fermarci a riflettere è un'arte saggia mentre la stragrande maggioranza di noi corre senza un "fine", solo per competere. Se ci fermassimo a riflettere scopriremmo le informalità della storia e le transizioni nelle quali la vita evolve nella sua complessità; la riflessione come possibilità di scoperta è un "pensiero nella vita", non un "pensiero sulla vita".
L'atto del riflettere è l'atto della ricerca. Anziché continuare a correre verso un ignoto che vestiamo di certezze, è necessario rallentare il ritmo della nostra presunzione per ritrovare la capacità di ricongiungere, anzitutto culturalmente, ciò che è disperso; dobbiamo dedicarci a ricercare, sempre più problematizzando ciò che riteniamo immutabile e accogliendo la naturale incertezza della realtà, a cominciare dalla nostra.
Fermarci a riflettere significa ricongiungerci con l'oltre che già ci percorre e ritrovarci nei "luoghi" della realtà. Globalizzati e competitivi, abbiamo stravolto l'idea del tempo e dello spazio.
Il tempo della competizione è "tempo lineare", sommatoria cronologica senza profondità, senza emozione. Lo scorrere lineare dimentica che l'esperienza umana è un "complesso" che vive nella "tempiternità", nella naturale e profonda integrazione fra ciò che siamo stati e ciò che saremo; il presente come tale non esiste, è la sintesi continua dell' "essere che diviene".
Lo spazio della competizione è un' "arena globalizzata", "non luogo" dell'irrealtà. In tale arena ci limitiamo a esistere, in-differenti; il dato che vediamo nella globalizzazione è che, contemporaneamente, le società si aprono e si svuotano di senso. In tale contesto, perdiamo la certezza dell'identità come appartenenza e non ci ritroviamo in una identità globale di senso ma esistiamo in una sorta di permanente disagio che ci fa smarrire.
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