Wednesday 25 November 2015

(Istituto fondamentale) La fragilità della democrazia

Se avessimo l'onestà intellettuale di rileggere le parole della Arendt in "Le origini del totalitarismo" capiremmo molte cose sulla fragilità della democrazia, oggi considerata un dogma e un "fine".
Il problema è che, dimenticata la politica come arte della mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e come scienza della liberazione della progettualità umana, ci è rimasta la "democrazia impositiva" come modello da esportare. Ciò di cui pensiamo di poter fare a meno è l'incarnazione della democrazia nei processi storici presenti in ogni contesto; altresì, la "democrazia impositiva", strumento che si fa fine, non guarda al valore della libertà come liberazione.

Hanno scritto Edgar Morin e Mauro Ceruti (Una democrazia cognitiva, per una democrazia planetaria - ricerca - marzo/aprile 2013):  Dobbiamo comprendere che il rifiuto di affrontare l’orizzonte di un governo e di una democrazia planetaria retroagisce negativamente sulla stessa coesione delle nostre società. Dobbiamo comprendere, nel contempo, che la stessa difficoltà che impedisce la nascita di un’umanità e di una società planetarie trova le sue radici in una drammatica crisi cognitiva.L’ostacolo alla comprensione delle crisi planetarie non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza.
La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze. Ma queste conoscenze sono incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali, globali. L’università e la scuola ci insegnano a separare, non a collegare. Continuano a disgiungere conoscenze che dovrebbero essere interconnesse. La separazione delle discipline ci rende incapaci di cogliere “ciò che è tessuto insieme”: il complesso.
I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni ai problemi più gravi della nostra era planetaria costituiscono essi stessi uno dei problemi più gravi.
Più i problemi diventano multidimensionali, maggiore è l’incapacità di affrontarli; più le crisi avanzano, più aumenta l’incapacità di pensarle; più le questioni diventano globali, maggiore è l’incapacità di raffigurarle.
Il pensiero che divide e isola consente agli esperti di fornire prestazioni di alto livello nei loro compartimenti. Ma questi stessi esperti estendono anche alle relazioni umane i meccanismi inumani della macchina artificiale. La loro visione ignora, occulta, dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, libero, creativo.
Un pensiero capace solo di separare frammenta la complessità del mondo in singoli elementi disgiunti. Distrugge ogni possibilità di comprensione e di riflessione, elimina le possibilità di un giudizio correttivo o di una veduta a lungo termine. E’ un pensiero che rende ciechi e irresponsabili.
Il pensiero che collega deve prendere il posto del pensiero che separa.
Per pensare i problemi planetari, dobbiamo generare un pensiero del contesto e un pensiero del complesso. Dobbiamo pensare in termini planetari la politica, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salvaguardia delle risorse biologiche, ecologiche, culturali.
Vi è la necessità di un pensiero che colga i legami, le interazioni, le implicazioni reciproche, che colleghi quel che è diviso, che rispetti ciò che è diverso riconoscendo al tempo stesso l’uno. E questo significa: un pensiero multidimensionale; un pensiero organizzatore capace di concepire la relazione reciproca fra il tutto e le parti; un pensiero ecologico che situi l’oggetto studiato nelle sue molteplici relazioni con i suoi ambienti; un pensiero che sappia negoziare con l’incertezza.
La complessità dei problemi di questo mondo ci disarma, ma proprio per questo dobbiamo riarmarci intellettualmente imparando a pensare la complessità.
Oggi che due nessi inscindibili, quello fra locale e globale e quello fra politica e tecnologia, pervadono tutte le dimensioni della vita quotidiana, il cittadino si sente espropriato del diritto di decidere la propria collocazione nel mondo. Vi è un divario fra democrazia politica, che almeno apparentemente continua a essere praticata, e democrazia cognitiva, che rischia di non essere praticata da nessuno, perché nemmeno gli esperti riescono a pensare l’intreccio dei problemi ai quali dovrebbero essere chiamati a rispondere.
Dobbiamo invertire il circolo, renderlo da vizioso virtuoso. Solo un’inedita democrazia cognitiva, che promuova lo sviluppo personale dei cittadini nella loro capacità di acquisire, di connettere, di interpretare informazioni e conoscenze, potrà consentire di rigenerare la democrazia politica.

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