Monday 19 December 2016

Diario Minimo - Lezioni della storia e ansie del presente (Vincenzo Scotti)

Sono trascorse due settimane dal voto referendario di domenica 4 dicembre. In un così breve lasso di tempo, il governo Renzi si è dimesso, assumendosi la responsabilità della sconfitta, in noventasei ore si è formato il governo Gentiloni e in settantadue ore ha ricevuto la fiducia delle due Camere ed ha partecipato al Vertice dell’Unione Europea, annunciato di particolare importanza, e chiusosi con un rinvio. Il quindicesimo giorno si è concluso con l’assemblea del Partito Democratico. Bisogna riconoscere la rapidità e l’efficienza con cui i cittadini e i loro rappresentanti politici – nella stragrande maggioranza dei casi - hanno indicato chi aveva vinto e chi aveva perso, quale fosse la portata politica del voto referendario (una crescente divaricazione tra giovani, donne e uomini del Mezzogiorno e delle inaccettabili nuove disuguaglianze) e quali fossero le decisioni strategiche (nuovo governo traghettatore, approvazione della legge elettorale, svolgimento delle elezioni politiche nazionali).

Da quel 4 dicembre sembra trascorso un ampio lasso di tempo. Di giorno in giorno, altre contrastanti emergenze hanno riempito i notiziari televisivi, la carta stampata, le pagine del web. Tra i vincenti del referendum, l’architrave costituito dal movimento dei pentastellati ha visto messo rapidamente in discussione, con la esplosione della crisi della giunta Raggi a Roma, quel percorso verso il governo del Paese che il 5 gennaio aveva intrapreso con la stesura del programma e la scelta degli uomini e l’offerta di alleanza da parte della Lega e di Fratelli d’Italia. E i primi a cancellare dalle prime pagine l’ascesa dei pentastellati sono stati gli stessi giornali che, il 5 dicembre, avevano aperto al nuovo che avanzava all’orizzonte elettorale. Mentre l’area di centro sinistra ha guardato con interesse a un meccanismo elettorale in grado di contrastare i movimenti populisti in Italia. Molti centristi, che per anni hanno guardato con terrore all’apparire una qualche forma di proporzionale, si sono improvvisamente convertiti ad esso. Questo passare da una prospettiva ad un’altra, radicalmente opposta, è una delle ragioni della inconsistenza e del mancato radicarsi di una forza politica capace di trovare consensi nell’area riformista moderata.

E’ possibile rallentare la corsa precipitosa verso le elezioni nazionali, rifiutandosi di considerare questa come l’unica strada per ascoltare e dialogare con quelle forze che non hanno ancora ceduto alla ventata populista. Per queste forze, l’appello “alle urne, alle urne” sarebbe percepito come un atto di arroganza di una casta politica che non ha altra via di comunicazione e di incontro con la gente che quella delle “grida” elettorali senza idee, proposte e credibilità. Le forze populiste troverebbero nell’appello “alle urne, alle urne” il terreno di coltura di un nuovo referendum estremamente semplificato usato per mandare a casa la casta e ogni simbolo del loro potere.

Non è certamente un rifiuto al confronto elettorale, un rifiuto al ricorso al popolo sovrano, ma un rifiuto a un modo sbagliato di arrivare alle elezioni; non può trattarsi della rivincita tra un quaranta per cento coeso e un sessanta per cento frastagliato e senza una proposta comune. Né può essere un invito a votare un quesito referendario su partiti che hanno saputo governare e un movimento pentastellato-leghista che ha mostrato, nelle sue prime esperienze, evidenti incapacità di governo. Ho l’impressione che i cittadini leggerebbero questo quesito referendario in modo opposto a quello che i proponenti vorrebbero.

Non dimentichiamo che i riformisti moderati non sono riusciti ad avere una proposta comune e a presentare agli elettori un volto coeso e credibile su uno dei principi fondamentali che dà fondamento a tutta la Costituzione, e al quale bisognerà riferirsi quando sorgeranno problemi di interpretazione intorno allo “spirito” della Costituzione, così formulato dall’articolo 2: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Giorgio La Pira, a brevissima distanza dalla approvazione della Costituzione, scriveva: “Sorgono qui due problemi fra loro strettamente collegati; l’analisi di questo principio, infatti, mostra che è ispirato da due premesse: una di carattere metafisico e sociologico; l’altra correlativa, di carattere giuridico. ….. La prima è enucleata in quel inciso rivelatore (“sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”); la seconda è indicata dall’altro inciso rivelatore (“la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo ecc.“)”. Giorgio La Pira, sempre nel 1948, sottolineava come il principio dell’articolo 2 governa – con maggiore e minore energia – tutta la prima parte della Costituzione. Nella seconda parte, relativa agli organi costituzionale, il principio dell’articolo 2 soffre “le maggiori eccezioni e incoerenze”. Noi sappiamo bene le ragioni politiche del perché questo avvenne e bloccò una intesa che venisse a coronare, anche nella seconda parte, il principio pluralista che ispira tutta la Costituzione. Perché, allora, nel corso di tanti lunghi anni i riformisti non sono riusciti a portare a quel cambiamento della seconda parte della Costituzione secondo quel principio pluralista dell’articolo 2 ? Perché, invece di trovare insieme una soluzione condivisa e quindi andare insieme al corpo elettorale per una ratifica, si è arrivati ad una contrapposizione su ipotesi riformatrici divaricate? Perché, invece di approfondire il dialogo, si sono ulteriormente divaricate le posizioni rendendo impossibile alla Costituente una intesa anche per la struttura del Parlamento, dando vita a un doppione così come scriveva nel 1948 uno dei più attivi costituenti?

Nella storia del nostro Paese queste divisione tra gli innovatori ha aperto la strada ad avventure populiste. Lo scarico di responsabilità proprie per attribuirle agli altri è una esperienza antica.

Vogliamo andare oggi ad elezioni, senza aver sciolto questo nodo e pensando che si possa affrontare l’ondata populista senza una unità e una strategia comune ?

Invece di correre prendiamo una pausa breve di riflessione e di dialogo sapendo che non sono in gioco gli interessi di questo o di quel leader ma quelli dell’intero Paese.

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