Sunday 27 November 2016

Diario Minimo - Giudizio storico e mondo "exit" (di Vincenzo Scotti)

Il contributo che segue è il primo di Vincenzo Scotti a The Global Eye. L’autore continua le riflessioni cominciate nel 2004 con il libro “Diario minimo. Un irregolare nel palazzo” (Memori)

Il tempo che stiamo vivendo viene descritto come un cambio d’epoca. In cosa consiste questo cambio? Vorrei, in estrema sintesi, tentare un abbozzo di risposta che nasca da una riflessione sviluppata con il concorso di tanti e capace di guardare oltre il corto orizzonte a cui siamo abituati. Sono ben consapevole dei limiti propri di ridurre in poche righe una riflessione che meriterebbe una ben più articolata analisi. Nonostante il rischio è utile formulare una ipotesi, certamente da approfondire e da verificare. Con la consapevolezza della difficoltà dell’ impresa, cerco subito di abbozzare l’ipotesi e di aprire una discussione.

Nei Paesi della ostentata opulenza, i resoconti giornalistici, le fotografie e i filmati della crisi degli anni venti del ‘900 e delle atroci violenze della seconda guerra mondiale misero a nudo, alla fine della seconda guerra mondiale, le aberrazioni compiute dalla sete di profitto, di potenza e di totalitarismo in Europa.

I cinque Stati vincitori della seconda guerra mondiale, legati da un patto contro il totalitarismo nazista, avevano due visioni radicalmente contrapposte per uscire dalla miseria e dalla guerra: o andare oltre il capitalismo e verso il comunismo e oltre la democrazia liberale verso la democrazia popolare o riformare la democrazia e il capitalismo vincolando gli Stati a rendere effettivi i diritti di libertà formali assicurando i diritti al lavoro, alla salute, all’educazione senza discriminazione di sesso, razza, religione.

Già prima della Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti si materializzò, con la Presidenza di Roosevelt, un “New Deal”, un riformismo per sostenere la crescita e la redistribuzione della ricchezza. Un riformismo che troverà sostegno nella analisi keynesiana e nella indicazione della necessità per gli Stati di sostenere il livello della domanda aggregata e consentire così al meccanismo di mercato di funzionare in maniera equa ed efficiente.

Dopo la guerra, i grandi Paesi capitalisti e democratico-liberali affrontarono un cambiamento epocale che si fondò su due pilastri. Innanzitutto una correzione rilevante dell’individualismo capitalistico con effettive forme di inclusione e solidarietà tra giovani e vecchi, tra occupati e disoccupati, tra ricchi e poveri con il ricorso a forme di fiscalità progressive e la nascita di un “welfare state”.

Contestualmente si fecero strada tentativi di superamento delle forme esasperate di nazionalismo cercando forme di cooperazione, di integrazione politica, economica, e finanziaria come risposta a una concorrenza senza regole per il controllo delle materie prime e delle fonti energetiche e per il dominio dei mercati nell’epoca post-coloniale e globale. Le realizzazioni furono tante e, sfidando non poche resistenze, andarono dal piano Marshall agli accordi di Bretton Woods e San Francisco, al punto cinque di Wilson, all’ Alleanza Atlantica, alla creazione della Ceca, della Cee, della Unione Europea. Le scelte degli Stati furono sostenute, in non pochi casi, dalla pressione dei popoli e dalla necessità di fronteggiare il confronto con il blocco comunista.

La caduta del muro di Berlino accelerò i processi di una globalizzazione senza regole e caratterizzata da una sfrenata liberalizzazione e privatizzazione, nella illusione di potersi affidare esclusivamente ai meccanismi automatici del mercato.

La crescita dei debiti sovrani degli Stati, per sostenere una spesa pubblica crescente, portò all’aumento della pressione fiscale soprattutto sui ceti medi. Un accentuato statalismo nella gestione del welfare accentuò la sua burocratizzazione. Nei Paesi emergenti la crescita della produzione in settori di base e dei beni di grande consumo (facendo leva sul dumping fiscale, sociale e sindacale) ha messo in crisi intere filiere produttive nei Paesi di antica industrializzazione con conseguenti tensioni occupazionali e sociali. Ha richiesto una ricollocazione internazionale dei sistemi produttivi dei Paesi industriali. Contestualmente, le differenti dinamiche demografiche tra le grandi aree del pianeta hanno fatto crescere i flussi dei rifugiati e dei migranti dai Paesi in guerra o afflitti dalla miseria. In una prima fase, quando i tassi di crescita dei Paesi industriali erano elevati, non avevano scatenato rivolte xenofobe.

Tutto è cambiato con lo scoppio della crisi planetaria del 2007-2008. I Governi si sono rivelati generosi nel sostenere ed evitare il fallimento delle banche e nel garantire i grandi finanziatori degli Stati. Errate politiche di austerità hanno portato, e portano, a cancellare la crescita, ad accentuare rapidamente le disuguaglianze interne, spingendo sotto la soglia di povertà larghe parte dei ceti medi, senza riuscire a ridurre i debiti sovrani che hanno continuato a lievitare. In tal modo, si sono ridotte o cancellate fasce di protezione sociale e sono aumentati i livelli di disoccupazione, i salari sono restati costanti e hanno avute conseguenze gravi sulla crescita della domanda globale. Alla fine, paura e frustrazione hanno portato nella generalità dei Paesi a una rivolta, chiamata impropriamente populista, contro quelle che sono state considerate le cause della crisi:

- “l’invasione” dei rifugiati e migranti (la cattiva se non pessima gestione della integrazione e i muri di molti Paesi membri dell’Unione Europea) e la grande miopia dei Governi e delle Istituzioni internazionali;

- la crisi dei processi di integrazione sovrannazionale che sono stati a fondamento di quasi un secolo di politiche di coesione e di solidarietà internazionale.

Le mancate risposte della politica hanno portato al rifiuto della politica inefficiente, corrotta e sopraffatta dai grandi poteri finanziari del mondo. Le leadership politiche si sono difese affidandosi a tecnocrazie capaci di offrire solo modelli e vincoli quantitativi in grado di tener buoni i mercati ma non certamente i cittadini.

E’ cosi cresciuto il grido “exit” da ogni struttura sovranazionale e il ritorno a chiusure nazionali ed “exit” da ogni forma di solidarietà e di coesione sociale.

Finisce così un’epoca e ne nasce una nuova che, senza affrontare i nodi politici che legano insieme le condizioni del benessere materiale e le condizioni di una possibile coesione e solidarietà democratica, sembra aver trovato la nuova pietra filosofale: uscire dai legami e dalle istituzioni sovrannazionali per ritrovare sicurezza, forza e crescita chiudendosi nelle antiche sicurezze nazionali. La battaglia politica, in questo tempo storico, è per l’ “exit”, processo non certamente breve né facile ma certamente capace di rassicurare e proteggere (la Brexit è stato uno "spartiacque storico" assai evidente). Si tratta di bloccare i flussi migratori e respingere gli “illegali”. Si tratta di restringere l’area della democrazia per rendere più efficiente e più corta la catena del comando di un Paese.

I grandi riformisti del secolo passato ricorrono alla demonizzazione dell’ “exit” e divengono conservatori di istituzioni e politiche che non trovano consenso e sostegno e che favoriscono ogni forma della cosiddetta “anti-politica” che, però, tale non è. Nel vuoto venutosi a creare, infatti, essa è l’unica risposta politica che va incontro alla paura e nella ricerca di risposte semplicistiche a problemi terribilmente complessi. Cosa sarà l’epoca dell’ “exit”, come riusciremo a ricollegare i ceti degli emarginati e la politica, sotto quali forme nascerà un nazionalismo ragionevole e responsabile e una integrazione possibile negli Stati e fra gli Stati ? La sfida è aperta.

1 comment:

  1. Il prof Scotti, al termine pone la domanda cruciale cosa sarà l’epoca dell’exit ?
    Proviamo a formulare una ipotesi di risposta.
    In primo luogo, i fenomeni attuali sono frutto del sostanziale superamento della democrazia rappresentativa come fino ad oggi conosciuta e vissuta attraverso il voto e l’elezione di delegati negli organi di governo.
    Le possibilità di comunicazione e di relazione sono cresciute in modo impensabile per i padri costituenti, quindi, i processi democratici si sono ampliati attraverso votazioni primarie per la scelta dei candidati e partecipazione alla formazione dei programmi.
    Da tutto ciò emerge una voglia di partecipazione e di condivisione delle scelte di governo che non organizzata si coagula solo su bisogni primari come sicurezza e protezione dalle pressioni esterne.
    Si tratta, al contrario, di cogliere questa potenzialità, questo desiderio di partecipazione attraverso strumenti che siano capaci di cogliere l’intelligenza collettiva che scaturisce dalla partecipazione per attivare percorsi e processi innovativi di governo.
    Parlare di exit, vuol dire sentirsi al centro. Proviamo a passare anche noi il limite e guardare alla realtà dall’esterno. Ovvero guardiamo la realtà dalla parte dei cittadini.
    Rimettiamo i cittadini al centro e riformuliamo in modo più evoluto i meccanismi della democrazia. Questa una prima possibile risposta.

    ReplyDelete